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Intervista a Toni Capuozzo

Intervista a Toni Capuozzo

INTERVISTA A TONI CAPUOZZO

Per i più è un “giornalista di guerra” ma lui non ama questa definizione e motiva “così sembra una categoria a sé stante”. Toni Capuozzo si considera invece “un inviato, un cronista”, e di conflitti ne ha vissuti e raccontati davvero tanti nella sua carriera, dall’America latina dei guerriglieri salvadoregni alle guerre nella ex Jugoslavia, alla Somalia, al Medioriente e all’Afghanistan. Attualmente conduce “Terra!”, programma di approfondimento su Rete 4 di cui è anche autore, ma nel curriculum vanta esperienze che variano dalla vice- direzione del Tg 5 a collaborazioni con periodici come Panorama Mese e Epoca a programmi tv come Mixer. Nato a Palmanova, in Friuli Venezia Giulia, quando non è “inviato” o meglio, tra una trasferta e la successiva, vive a Milano.

Nei suoi reportage in località lontane come nella sua quotidianità, cosa si è portato della sua Terra d’origine? Quanto emerge ancora della sua friulanità?

Credo di essermi portato dietro intanto la storia della mia famiglia, mio padre veniva infatti da Napoli, mia madre da Trieste. Io sono cresciuto in Friuli e ho dovuto imparare il friulano come se fosse una lingua straniera e anche il dialetto udinese che pure è diverso e quindi, diciamo, per me è stato un po’ più facile adattarmi a tanti posti nuovi, molto diversi, perché sono cresciuto un po’ come fossi “straniero” dappertutto… Andavo da mia nonna a Trieste e non ero triestino, in Friuli non ero completamente friulano, per quanto riguarda Napoli mio padre era napoletano ma avevo un accento che non era il suo. Insomma, penso di essermi portato dietro tutto questo. Poi, per quanto riguarda il Friuli in particolare, penso di averne assimilato e fatto mia la concretezza, insomma l’assenza, o perlomeno il tentativo, di non ricorrere mai alla retorica, al gusto della parola per la parola. Credo si, di avere preso senz’altro questo dal Friuli.

C’è qualcosa in particolare che la manca dei posti in cui è nato e ha vissuto la sua infanzia?

No, direi che come tutti quelli che hanno trascorso la vita girando, i luoghi che io rimpiango non esistono più, non sono più quelli della mia infanzia. Quando torno non ritrovo più gli stessi amici, un bar ha chiuso… Insomma la città che trovo adesso, quando torno, non è quella in cui sono cresciuto io, ha lo stesso nome, ci assomiglia molto, ma qualcosa è inevitabilmente cambiato. Come accade a tutti quelli che stanno in giro, inevitabilmente si rimpiangono luoghi che sono scomparsi.

La generosità del Nordest è nota e lei stesso fu uno dei volontari per gli aiuti post terremoto in Friuli nel 1976. Ci sono altri scenari che lei ha vissuto in questi anni, pensiamo ad esempio ai teatri di guerra, in cui ci sono state azioni di altruismo che l’hanno colpita?

Io ho dato una mano , insieme a Mario Corona e Gigi Maieron, il cantautore, a costruire una Casa- alloggio per le famiglie dei grandi ustionati ad Herat, che è stata realizzata grazie all’impegno dell’8° Reggimento Alpini di Cividale. Lì c’era tutta la concretezza e il “mestiere” degli Alpini, sia di quelli che oggi vestono la divisa, sia di quelli che ancora portano il Cappello ma sono ormai dei congedati che continuano ad essere presenti sempre, in prima fila, pensiamo ad esempio alla Protezione Civile, insomma ovunque ci sia bisogno di dare una mano. Credo che questa sia un’altra delle cose che mi porto dietro. Ovviamente vale per il Nordest come per altre parti d’Italia, più difficilmente per le grandi città, nel senso che se c’è bisogno e sei in grado di dare una mano.. Beh.. Devi dare una mano, e questo ha a che vedere molto con il paese, con la provincia, insomma dove ci si conosce un po’ tutti. Nella città tutti sono un po’ più estranei gli uni agli altri, se non in casi molto rari.. Penso quindi di aver anche fatto mio questo “senso di solidarietà quando serve” molto friulano, che non è di fatto una bandiera ideologica o politica. Insomma, almeno in Friuli era così un tempo, quando una persona doveva costruirsi la casa gli altri davano una mano e viceversa, oppure quando era il momento di fare certi lavori in campagna ci si aiutava a vicenda, e poi pensiamo a tutta al tradizione delle cooperative dei consumi… C’era e c’è un atteggiamento solidale di fatto, senza ci sia il bisogno che siano il sindaco o il parroco a dovere convocare…

Dal 15 febbraio del 2012 segue passo passo la vicenda dei Fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone e nel libro a sua firma che è stato pubblicato da poco “Il segreto dei marò” (Mursia ed.) si dichiara fermamente convinto dell’innocenza dei due. Cosa l’ha spinta a portare avanti quella che è diventata una vera e propria battaglia per la Verità?

La prima spinta è venuta dal fatto che io conoscevo Latorre, l’avevo conosciuto in Afghanistan perché comandava una scorta che mi era stata affidata-non su mia richiesta- mentre stavo facendo un servizio sugli elicotteri della Marina, che curiosamente erano impegnati a Kabul. Era il 2006 e come succede quando ti conosci in posti come quelli, diventi con più facilità amico, e poi c’è il fatto che l’ho visto sul lavoro, come un professionista posato e quieto, non un “Rambo”, uno insomma, da cui non ti aspetteresti mai che spari a freddo su dei pescatori inermi scambiandoli per dei pirati. Quando è successo sono rimasto sorpreso, ho pensato che magari poteva avere sbagliato e sono andato quindi a vedermi le dinamiche di quella storia. Bene, ho trovato che ci sono mille volte più indizi di estraneità che indizi di colpevolezza, tanto è vero che in tre anni e mezzo l’India non solo non li ha mai processati (avrebbe avuto tutto l’interesse di farlo velocemente prima che l’Italia ricorresse all’arbitrato internazionale), ma non ha neanche emesso un capo d’imputazione, non li ha neanche rinviati a giudizio. Se fossimo in Italia sarebbero allo stato di due persone che hanno ricevuto un avviso di garanzia.

È plausibile quindi dire che non si è arrivati a istruire un processo perché non ci sono prove di colpevolezza?

Le prove che l’India ha finora raccolto sono tutte molto manipolate, qualunque Tribunale di un paese di diritto degno di questo nome le considererebbe totalmente insufficienti. Questo spiega anche l’imbarazzo dell’India, e io credo che il ricorso dell’Italia all’arbitrato li abbia sollevati, perché istruire un processo con delle prove di quel tipo lì sarebbe stato imbarazzante per qualsiasi giudice, come sarebbe stato impegnativo emettere un qualsiasi verdetto di condanna.

Perché sostiene che la sentenza del Tribunale di Amburgo dello scorso 24 agosto, che ha imposto all’India la sospensione di ogni procedura ma che ha lasciato i Fucilieri in carica a Delhi, è una sconfitta?

Se si trattava di congelare questa storia, andava fatto al “momento zero” del dopo incidente, non può essere sospeso il potere giudiziario dell’India, e Tribunale del Mare ha chiesto a entrambe le parti di astenersi da qualunque iniziativa giudiziaria (l’Italia invece non ha iniziative giudiziarie, quindi non c’è nulla da cui debba astenersi). Nello stesso tempo però, si lascia nella disponibilità dell’India la vita quotidiana dei due Fucilieri di Marina, uno in India e l’altro che teoricamente dovrebbe farvi ritorno. Questo è un controsenso e io credo che l’Italia avrebbe dovuto, al di là poi della sentenza, o dovrebbe adesso- presenterà naturalmente questa richiesta anche alla Corte arbitrale dell’Aja- fare un discorso chiaro sul piano politico dicendo che abbiamo una contesa giudiziaria che affronteremo entrambi lealmente rispettandoci l’uno con l’altro. Non è certo pensabile adesso che per due anni e mezzo o tre anni teniamo due persone e le priviamo della loro libertà. Il discorso chiaro avrebbe dovuto prevedere un impegno rispetto al fatto che se la Corte arbitrale avesse deciso che era l’India ad avere diritto a processarli, i Fucilieri sarebbero andati in India a farsi processare ma nel frattempo, come fra gentlemen, fra paesi democratici che si rispettano non si può pensare di bloccare delle persone esercitando di fatto già una condanna. Era un discorso che doveva già essere stato fatto ma che si può fare anche adesso.

Presumibilmente l’iter quindi, è ancora molto lungo. Quale potrebbe essere una “speranza” per la risoluzione di questa vicenda?

La speranza è che la Corte di Amburgo riconosca una modifica alle condizioni temporanee dei due protagonisti di questa storia. E che l’Italia nel suo rapporto con il governo indiano, neanche più con la magistratura indiana, forzi la mano, giunga a un chiarimento che sia onorevole sia per la nostra nazione che per l’India e che consenta per lo meno una libertà provvisoria. Trattasi di un controsenso, due persone rispetto alle quali si deve decidere chi le processerà sono bloccate per altri tre anni. Non esiste, siamo di fronte a un provvedimento preventivo ancor prima che si sia deciso chi li debba giudicare. Questo è davvero un assurdo, da un punto di vista del diritto.

Il nuovo libro di Toni Capuozzo

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Il segreto dei Marò – Toni Capuozzo

Il segreto dei marò

Toni Capuozzo

Pagine: 280

Potete credere per principio a Latorre e Girone quando dicono: «Siamo innocenti». Potete, sempre per principio, non credergli. Potete considerare le contraddizioni dell’indagine indiana importanti, oppure marginali. Ma chiedetevi: com’è possibile che dopo tre anni e mezzo i due marò non siano stati ancora rinviati a giudizio?

Il 15 febbraio 2012 nell’Oceano Indiano due pescatori vengono uccisi da una raffica di colpi sparata da una nave mercantile. Nello stesso giorno la Enrica Lexie, petroliera italiana con a bordo un Nucleo Militare di Protezione, ha respinto un tentativo di abbordaggio. Nel giro di poche ore la nave italiana inverte la rotta e viene fatta ormeggiare nel porto di Kochi, e qualche giorno dopo i due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, vengono arrestati. Comincia così il «caso marò», una vicenda che è diventata un limbo giudiziario fatto di inchieste approssimative, estenuanti dibattiti sulla giurisdizione e sull’immunità funzionale, rinvii e nulla di fatto.

Toni Capuozzo ricostruisce gli eventi, a cominciare dalla legge che consentì l’impiego di personale militare a bordo di navi mercantili. Spiega il groviglio giuridico che ha intrappolato due Paesi amici, l’Italia e l’India, e il peso degli interessi economici e politici che hanno condizionato la vicenda, gli errori di tre governi e cinque ministri degli Esteri italiani. Ma soprattutto ricostruisce l’incidente del 15 febbraio facendo emergere tutte le contraddizioni e le lacune dell’inchiesta indiana e avanzando un’ipotesi di innocenza dei due militari, mai fatta propria dalla diplomazia italiana. Latorre e Girone hanno sempre detto: «Siamo innocenti». Ma nessuno finora gli ha creduto. Perché?

Barbara Ricciuti

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Direttore Responsabile di Marca Aperta.